
Smart working: l’innovazione che l’Italia non voleva (ma di cui non potrà più fare a meno)
Lo smart working non è nato con la pandemia, ma in Italia è servita una crisi globale per capirne il valore. Ecco perché è destinato a restare (soprattutto nel tech).
FUN FACTS



Smart working: l’innovazione che l’Italia non voleva (ma di cui non potrà più fare a meno)
Lo smart working non è nato nel 2020. È nato molto prima. Solo che in Italia nessuno lo voleva.
Finché, un giorno, è arrivata una pandemia mondiale. E quello che per anni era stato visto come un capriccio per freelance o un privilegio per pochi, è diventato improvvisamente l’unica opzione possibile. In meno di due settimane, il Paese del “presenzialismo” ha scoperto che il lavoro si poteva fare anche da casa. E non è più tornato indietro del tutto.
Perché in Italia lo smart working non attecchiva
Per capirlo, bisogna guardare la cultura del lavoro italiana. Noi siamo il Paese dove la fiducia è ancora un concetto fragile. Dove il tempo passato in ufficio conta più del risultato. Dove “essere al computer” è sinonimo di “stare lavorando” — anche se magari stai solo aspettando che passi l’orario di uscita.
Per anni, lo smart working è stato visto come un rischio:
“E se poi non lavorano?”
“E se le persone se ne approfittano?”
“E se l’azienda perde il controllo?”
Ma il problema era (ed è) un altro: la nostra idea di controllo. Non abbiamo mai davvero imparato a misurare la produttività per obiettivi, perché è più comodo misurarla per presenza. Lo smart working ha costretto tutti — manager, aziende, lavoratori — a fare un salto culturale che non eravamo pronti a fare.
La pandemia come crash test culturale
Quando il COVID è arrivato, non abbiamo scelto lo smart working: ci è stato imposto. E nel caos di VPN improvvisate, connessioni precarie e figli in DAD, abbiamo scoperto due verità:
Si può lavorare da casa.
Serve una cultura che lo renda possibile.
Le aziende più organizzate (soprattutto tech) si sono adattate in fretta. Le altre hanno semplicemente spostato l’ufficio su Zoom, senza cambiare nulla. Stesse riunioni, stessi orari, stessi problemi — solo con più pixel di distanza.
È stato il nostro grande esperimento di trasformazione digitale collettiva. Un crash test che ha fatto emergere i limiti del nostro modello di lavoro, ma anche un potenziale enorme: libertà, autonomia, fiducia.
Perché nel tech ha funzionato (e altrove no)
Il mondo tech è stato l’unico davvero pronto. Perché lo smart working nel tech non era una novità, era già una pratica consolidata: GitHub, Slack, Jira e Google Docs avevano già risolto il problema della distanza anni prima.
Nel tech si lavora da remoto per definizione: codice condiviso, task tracciabili, comunicazione asincrona. La pandemia ha solo accelerato un processo che era già in corso.
Altrove, invece, si è tentato di fare “smart working” senza essere smart. Senza digitalizzare i processi, senza formare i manager, senza cambiare la mentalità. E così molti hanno scambiato lo smart working per telelavoro, cioè lo stesso lavoro di prima… ma in salotto.
I benefici reali (e quelli che fingiamo di avere)
I veri vantaggi dello smart working non sono solo la flessibilità o il risparmio sul tragitto. Sono più profondi: la possibilità di lavorare per competenze e non per presenza, l’accesso a talenti lontani, una gestione più sostenibile del tempo e della concentrazione.
Ma serve una cultura manageriale che li sappia valorizzare. Senza questa evoluzione, il rischio è l’effetto opposto: isolamento, burnout, comunicazione frammentata e un confine labile tra lavoro e vita personale. In altre parole: più libertà, ma anche più responsabilità.
Il ritorno in ufficio: segno di nostalgia o paura del cambiamento?
Oggi molte aziende stanno invertendo la rotta. Non dichiarano “addio” allo smart working, ma ne riducono la portata. Tre giorni in ufficio, due da casa: il famoso modello ibrido, che spesso è solo un compromesso per evitare di affrontare il problema vero.
La verità è che non sappiamo ancora gestire la fiducia da remoto. E allora preferiamo tornare all’ambiente controllato, dove tutti possono essere “visti”. È un ritorno rassicurante, ma non sempre produttivo.
Nel tech, invece, la tendenza resta opposta: chi sa lavorare bene da remoto non vuole più rinunciare a quella libertà. E le aziende che lo capiscono attraggono i talenti migliori.
Smart working 2.0: il lavoro non è più un luogo
Il futuro del lavoro non è “tornare in ufficio” o “restare a casa”. È superare il concetto stesso di luogo di lavoro. Il lavoro è uno spazio mentale, non fisico. È fatto di obiettivi, relazioni, strumenti, autonomia e fiducia.
Lo smart working non è una moda, ma un banco di prova culturale. Ha diviso chi sa lavorare per risultati da chi sa solo “stare in azienda”. E il tech, in tutto questo, è stato il laboratorio perfetto: agile, distribuito, collaborativo.
In conclusione
Non è la pandemia ad aver inventato lo smart working. È stata la pandemia a costringerci a guardarci allo specchio.
Abbiamo scoperto che lavorare non significa “essere in ufficio”, ma creare valore ovunque ci si trovi. Il problema, semmai, è che l’Italia è un Paese dove il cambiamento arriva solo quando non si può più evitarlo.
E ora che lo smart working è entrato davvero nelle nostre vite, l’unica domanda sensata è: vogliamo continuare a subirlo o imparare finalmente a farlo bene?

